11 settembre 2010 – Altra data infausta

dicembre 14, 2010

Sabato 11 settembre 2010, data famosa per un’altra triste ricorrenza, sono deceduti tre lavoratori a Capua e uno a Pistoia vittime dell’incuria con cui si effettuano lavori di manutenzione e per quello che viene definito il “massimo ribasso” negli appalti.

Addirittura c’è che sostiene, il nostro Ministro dell’Economia , che non possiamo permetterci di sostenere i costi sulla sicurezza sul lavoro!

Quale livello di abbrutimento raggiungeremo seguendo questa strada e questi “falsi” profeti? Poi lo stesso dichiara di essere stato malinteso, ma intanto la dichiarazione c’è stata e un Ministro della repubblica, per quanto malconcia sia, non può permettersi di dare comunicazioni che possano essere malintese.

E’ una questione di etica e serietà professionale!

Leggi l’articolo del Presidente di AIFOS 


Il Coaching nella sicurezza sul lavoro

Maggio 19, 2009

 

Dal Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione al “Facilitatore” della sicurezza: non deve essere solo uno slogan ma un obiettivo da perseguire per passare da un concetto ed una visione di salute e sicurezza dei lavoratori, fatta solo di documenti, valutazioni e intendimenti che non producono effetti tangibili, ad una prassi ed una azione coinvolgente che pone al centro dell’azione dell’RSPP non solo il rispetto della norma e dei tempi ma, realmente e concretamente, la ricerca della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori che gli sono stati affidati.

Il nuovo RSPP deve essere consapevole che il datore di lavoro non gli affida semplicemente un incarico di consuulenza ma la tutela della salute e della sicurezza dei propri dipendenti la cui integrità fisica e psichica non ha un valore stimabile in assoluto.

Il nuovo RSPP deve essere consapevole che dalla sua attività dipende anche la qualità della vita dei famigliari dei lavoratori che il datore di lavoro gli affida.

Solo dopo aver interpretato secondo tali principi il suo ruolo il nuovo RSPP potrà considerarsi il “Coacher della salute e sicurezza” dell’azienda.

 Leggendo il titolo di queste brevi righe ci sarà qualcuno che penserà: “Ci risiamo, un’altra figura per la sicurezza in azienda, altri costi, altre norme, altre sanzioni!”.

Ancora oggi, anno 2009 dell’era moderna, la sicurezza e la salute dei lavoratori non è un problema al vertice delle preoccupazioni di gran parte degli imprenditori.    E’ un problema che crea fastidio ed evoca lo spettro di ispezioni, di sanzioni, di costi: in una parola crea “ansia” e si cerca di rimuoverlo. Qualsiasi proposta, idea, progetto volto a garantire maggiore sicurezza negli ambienti di lavoro è vista con sospetto e con un atteggiamento pronto alla critica e al rifiuto.

L’ultima vicenda della comunicazione all’Inail del nominativo dell’RLS è emblematico: una semplice comunicazione di un nominativo di un dipendente che dovrebbe, nelle intenzioni del legislatore, collaborare con il datore di lavoro per realizzare nell’impresa un ambiente di lavoro salubre e sicuro ha determinato il panico tra tutti gli operatori: imprenditori, sindacati, lavoratori, consulenti etc.

Secondo una consolidata e collaudata tecnica italica il problema è stato disattivato e posticipato in attesa di “buone nuove”, nel frattempo si continua a morire e aumenta la schiera degli invalidi e dei costi che le aziende sopportano per il fenomeno infortunistico.

Un aspetto che ha dell’incredibile è che questo problema, analizzato, studiato, discusso da anni, affrontato in Italia da oltre un secolo con alterni risultati, viene per lo più affrontato dal punto di vista legale, giuridico e medico; come se l’infortunio sul lavoro fosse un fatto ineluttabile e che una volta accaduto possa solo far scaturire una indagine per accertarne le responsabilità, determinare un intervento medico per riparare i danni fisici, ove possibile, e far scattare una valutazione per  risarcire il danno.

Ed ecco fiorire analisi e discussioni tra giuristi, tra medici, tra assicuratori. E’ vero da alcuni anni si parla anche di prevenzione. Dal 2000 a seguito dell’emanazione del decreto 38, da quando l’Inail ha scoperto una sua vocazione a prevenire prima di curare e risarcire.

Si è allora cominciato ad introdurre concetti quali cultura della sicurezza e formazione continua. Già dal 1994, con l’approvazione della legge 626, si è parlato di prevenzione e di formazione dei rappresentanti dei lavoratori ma tutto è rimasto sulla carta e si è affrontato il problema solo dal punto di vista formale.

Tale atteggiamento è sopravvissuto sino al 2003 quando il Dlgs 195 ha indicato precisi obblighi per la formazione dei Responsabili e degli Addetti ai Sistemi di Protezione e Prevenzione. Sono cambiate le norme, sono diventate più cogenti e più sofisticate, più punitive.

Nonostante ciò ancora oggi ci sono resistenze sensibili verso l’introduzione nei posti di lavoro di quella cultura della sicurezza al centro di tanti dibatti e convegni.

La formazione sulla salute e sicurezza del lavoro per prevenire gli infortuni è un fatto ormai acquisito, anche se spesso sopportato con malcelata insofferenza da parte dei datori di lavoro e degli stessi lavoratori.

Ciononostante i dati sugli infortuni sul lavoro negli ultimi anni sono abbastanza stabili e il loro decremento è certamente non proporzionale all’impegno profuso in termini di tempo e somme investite.

E’ evidente la necessità di percorre nuove strade e rimettere  in discussione l’approccio fin qui seguito.

Il “Coaching” nella sicurezza sul lavoro

Per comprendere a pieno la valenza strategica del “Coaching” nella sicurezza sul lavoro è necessario passare da un approccio al problema determinato prevalentemente dalla ricerca della conformità legislativa (fare prevenzione e sicurezza sul lavoro solo al fine di evitare sanzioni) ad una visione del problema come primario all’interno del business d’impresa e direttamente correlato alla competitività dell’azienda quale fattore di successo.

Il “Coaching” rientra a pieno titolo nella “cassetta degli attrezzi” di un imprenditore sensibile alle tematiche della Responsabilità Sociale d’impresa ritenendo che il “fare sicurezza sul lavoro” deve considerarsi un determinante etico e morale.

Perché la scelta di una parola di origine anglosassone, per civetteria, per un amore esterofilo …? No, semplicemente per ricollegarsi al filone e ad una idea professionale ormai diffusa che, provenendo dagli Stati Uniti, si sta affermando anche in Italia. Non è appiattimento su termini di tendenza, è utilizzare nomenclature e terminologie di largo uso per rendere immediata la comprensione dell’obiettivo che si vuole raggiungere.

In meno di dieci anni il “Coaching” come professione può contare circa 11.000 membri affiliati alla International Coaching Federation e residenti in oltre 80 paesi.

E’ stato uno sviluppo “esplosivo” determinato dai progressi nel campo del sapere, dallo studio delle metodologie e dei processi di apprendimento degli adulti, da una rinnovata attenzione al fare e alle prassi nella ricerca di nuove tecniche di sviluppo degli individui.

Lentamente il Coaching sta divenendo un vero e proprio meccanismo aziendale di sviluppo che tende  ad integrarsi con altri strumenti di governo strategico dell’azienda.

In quanto tale e alla luce delle opportunità che questo strumento può offrire nell’interazione con le persone, o megli tra le persone che operano in azienda, è evidente l’interesse che tale metodologia può suscitare in coloro che si occupano di salute e sicurezza del lavoro, sempre alla ricerca di nuovi modelli da utilizzare nella lotta agli infortuni sul lavoro.

Gran parte degli operatori del settore ormai sono convinti del fallimento delle politiche di contrasto sin qui attuate nella lotta agli infortuni sul lavoro. Leggi, sanzioni, ispezioni, la stessa formazione fatta come è stata fatta sino ad oggi non hanno portato a quella drastica riduzione degli infortuni invocata dalla Commissione Europea!

Come già scritto, sembrano tutte azioni con effetti placebo, che pur dando una illusione di forte contrasto non incidono a fondo alla radice del problema che, è ormai acclarato, si annida nei comportamenti delle persone, negli atteggiamenti degli operatori, nelle abitudini e consuetudini difficili da scalfire.

Le metodiche del coaching applicate al settore della salute e sicurezza dei lavoratori possono contribuire ad attivare delle relazioni finalizzate  a vincere la sfida della sicurezza.

Il “Work Safety Coaching” (WSC) è l’attivazione di una modalità di relazione in cui il “cliente”, quello che nella terminologia professionale viene chiamato “coachee”, che è il fulcro dell’attenzione e viene supportato ed aiutato  ad attivare una serie di comportamenti idonei a raggiungere gli obiettivi che, d’intesa con il coach, si è posto.

Il supporto che il coach fornisce al “cliente” è la consapevolezza delle proprie capacità e di quello che sarebbe in grado di fare. Nel contempo fornisce all’azienda il supporto per la definizione degli obiettivi nel campo della salute e sicurezza traducendo aspirazioni sfuocate e vaghe in risultati da raggiungere.

Se il Coach si è venuto identificando professionalmente come colui che in azienda è in grado di essere uno strumento di sviluppo di competenze, applicato nel campo della sicurezza del lavoro una tale professionalità è certamente in grado di aiutare gli operatori a sviluppare le proprie competenze e consapevolezze verso una prevenzione attiva ed efficace.

 Da RSPP a WSC: non solo sigle

Ormai la nostra attività professionale, e non solo, è imperniata su sigle e acronimi che costellano i nostri discorsi e le nostre relazioni.

Anche in questo caso utilizziamo due acronimi di cui uno RSPP (Responsabile del servizio di prevenzione e protezione) è ormai conosciuto e utilizzato con grande dimestichezza. L’altro, WSC, sarà forse letto per la prima volta in questo articolo e quindi ne risulta oscuro il significato.

Con il decreto 626/94 e, successivamente, con il Decreto Legislativo 81/2008  la figura del Responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP) è strategica nell’azienda per realizzare un sistema, dettato dalle normative, utile a prevenire gli infortuni sul lavoro. Senza dilungarsi troppo sui presupposti e sul back ground culturale e tecnico  che deve possedere tale figura professionale è sempre più evidente la finalità di “garanzia” che tale professionista svolge a favore del datore di lavoro tutelandolo nei confronti delle direttive di legge e costruendo intorno all’impresa una sorta di “gabbia di faraday[1] che in modo meramente meccanicistico “dovrebbe” impedire il verificarsi degli infortuni sul lavoro e contemporaneamente “isolare” l’azienda da pericoli derivanti da ispezioni e/o verifiche da parte di agenti esterni.

Meccanicistico in quanto il redigere un DVR (Documento di Valutazione del Rischio), valutare e mappare i rischi, individuare i DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) necessari, stilare programmi di formazione sono tutte attività dettate dalle norme ma che di solito vengono realizzate senza la consultazione dei lavoratori e senza l’attivazione di un sistema di gestione della sicurezza che consentirebbe una reale ed efficace diffusione tra tutti gli attori dell’azienda di quella cultura della sicurezza da più parti invocata.

E’ proprio a questo punto che è necessario prevedere per l’RSPP, se non vogliamo creare una ulteriore figura della sicurezza, una competenza aggiuntiva che sia in grado di garantire, al di là delle norme, una reale sicurezza dei lavoratori. Oltre a creare un sistema di prevenzione meramente formale, l’RSPP deve essere in grado di renderlo efficace entrando in contatto diretto con i lavoratori stessi.

Ecco il significato della transizione dell’RSPP verso un ruolo di Coach che non deve sviluppare attività di consulenza, né di traning on the job, ne di coaching sportivo.

Essere un Coach, secondo il senso assegnato dal mondo della consulenza, significa porre attenzione al cliente-lavoratore (il “coachee”) tramite l’ascolto, la pazienza, il rispetto e riconoscendo la validità dell’esperienza e della percezione del lavoratore sui possibili rischi del suo lavoro. Significa riconoscere al lavoratore il ruolo di esperto della sua vita e di conoscitore dei pericoli cui è sottoposto giornalmente per assumerli all’interno di un sistema di gestione.

Un coach efficace aiuta il cliente-lavoratore a vedere la situazione e il contesto in cui opera in modo nuovo, più ampio stimolando in lui l’assunzione di altri punti di vista e schemi concettuali che lo possano garantire da rischi non valutati.

Da questa attività, fatta per settori, linee di produzione, gruppi di lavoro o singoli lavoratori il coach elabora tattiche comportamentali e strategie di diverso respiro, disegna nuovi modelli organizzativi, elabora programmi di formazione in base alle conoscenze acquisite rinforzando in modo mirato abilità e tecniche lavorative specifiche.

Questa attività, finalizzata a mettere il cliente-lavoratore al centro del sistema di prevenzione e protezione, stimola in lui nuovi modi di porsi verso il problema della sicurezza sul lavoro rendendolo partecipe e attivo.

Obiettivo è quello di raggiungere un elevato livello di “Sicurezza Partecipata” in cui il lavoratore da soggetto passivo, quale oggi spesso viene identificato, diviene il principale promotore ed alleato del datore di lavoro e dell’RSPP partecipando alla costruzione del sistema di tutela.

Conclusioni

Anche se le ultime norme contenute nel Decreto Legislativo 81 rafforzano il principio secondo cui il lavoratore debba partecipare attivamente alla costruzione ed al funzionamento di un sistema di gestione della salute e sicurezza dei luoghi di lavoro, il raggiungimento dell’obiettivo è ancora lontano.

Ancora troppo raramente i lavoratori sono coinvolti nella progettazione e gestione della sicurezza in azienda. Il livello di consapevolezza dei rischi e dei pericoli che si affrontano sul lavoro è spesso insufficiente a garantire l’integrità psico-fisica dei lavoratori.

L’intero apparato legislativo e gestionale messo in campo è troppo imperniato su atti,  procedure formali e figure professionali che poca attenzione dedicano all’analisi e, se necessario, alla modifica degli atteggiamenti e comportamenti dei diretti interessati: i lavoratori.

E’ quindi necessario uscire dalla selva dei formalismi e delle conformità per entrare con decisione dentro il problema: le norme, i DPI, le sanzioni non realizzano la prevenzione e non evitano gli incidenti sul lavoro. Questi si possono evitare solo parlando con i lavoratori, accogliendo le loro osservazioni, utilizzando la loro esperienza e rendendoli parte attiva del sistema di prevenzione e sicurezza.

Per fare questo è necessario che l’attuale RSPP evolva dalla figura di mero consulente del datore di lavoro acquisendo competenze di Coach della Sicurezza con il compito, in azienda e tra i lavoratori, di “facilitare” l’avvio di processi culturali ed interpersonali di avvicinamento verso un modello di prevenzione e sicurezza sul lavoro in cui il reale obiettivo sia la tutela dell’integrità psico-fisica dei lavoratori e non solo la conformità alle leggi.

Naturalmente, tale competenza dovrà a maggior ragione essere posseduta e agita anche dal datore di lavoro che si assume l’onere di svolgere i compiti di RSPP nella sua azienda.

 

 

 


[1] Con gabbia di Faraday si intende qualunque sistema costituito da un contenitore in materiale elettricamente conduttore (o conduttore cavo) in grado di isolare l’ambiente interno da un qualunque campo elettrostatico presente al suo esterno, per quanto intenso questo possa essere.

È utilizzato il termine gabbia per sottolineare che il sistema può essere costituito, oltre che da un foglio metallico continuo, anche da una rete o una serie di barre opportunamente distanziate.

Questo effetto schermante è utilizzato per proteggere ambienti e apparati da campi esterni, come per esempio quelli generati dai fulmini.


Protezione e sicurezza dei lavoratori: verso una formazione attiva e consapevole

luglio 18, 2008

FOCUS: Passare da una cultura passiva e meccanicistica della prevenzione, fatta di regole, divieti, prescrizioni e sanzioni, ad una visione attiva comportamentale della salute e sicurezza dei luoghi di lavoro che sia basata sulle sensazioni e la cultura del corpo e che aiuti i lavoratori a percepire la stessa organizzazione e il gruppo di lavoro come guscio di protezione di se stesso.

Ormai molto è stato fatto in tema di sicurezza e protezione della salute dei lavoratori. L’Italia, dal punto di vista giuridico, è all’avanguardia da diversi decenni. Tuttavia ogni qualvolta si presentano o commentano i dati sugli infortuni sul lavoro e le malattie professionali il coro è univoco: c’è ancora molto da fare!

E’ vero! Finchè ci sarà un solo morto o un infortunato per cause di lavoro l’opera non sarà compiuta, ma è anche vero che non possono essere accettabili riduzioni annue degli infortuni sul lavoro dell’1 o 1,5% e che si registri ancora una media di più di 3 morti al giorno.

Tale andamento infortunistico, peraltro, è in clamoroso contrasto con «l’ambizioso obiettivo» della Commissione Europea di ridurre in media del 25% il numero degli infortuni sul lavoro nell’UE (cfr. Relazione di Glenis WILLMOTT sulla strategia comunitaria 2007-2012 per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro)

Evidentemente considerata la produzione legislativa degli ultimi tempi, le forze messe in campo per il contrasto alla cattive prassi e per affiancare i datori di lavoro con attività di consulenza organizzativa e formazione, la strada intrapresa non sembra essere idonea per il raggiungimento degli obiettivi che ci si è posti.

Appare sempre più necessario scoprire ed esplorare nuovi itinerari che ci consentano di avvicinarci sempre più all’obiettivo di una definitiva sconfitta di questa piaga sociale.

Dal 2003, anno di entrata in vigore della legge 195/03, si è dato un grande impulso alla formazione considerata, a ragione, una leva imprescindibile per la lotta al fenomeno. In cinque anni, tuttavia, le cifre sulla riduzione degli infortuni e delle malattie professionali ha subito un trend di leggera flessione che non può considerarsi soddisfacente considerato l’impegno profuso dalle forze politiche, sociali ed economiche nell’ambito della prevenzione e sicurezza dei luoghi di lavoro.

Come si spiega tutto ciò?               Le politiche prevenzionali sui posti di lavoro, a parte alcune disgraziate eccezioni, sono diffuse nella quasi totalità delle aziende italiane. I lavoratori stessi sono sottoposti regolarmente a processi di formazione ed informazione, specialmente dopo l’approvazione della legge 195/03 che ha regolamentato la metodologia e i contenuti dei corsi di formazione per gli RSPP e gli ASPP considerati, giustamente, cardini del sistema di prevenzione e protezione aziendale. E’ quindi lecito chiedersi dove si annida il problema.

Probabilmente il problema si nasconde proprio nel modo di fare formazione che risente di un sistema tutto italiano di affrontare alcuni problemi nell’immediato da un punto di vista formale, senza preoccuparsi delle conseguenze nel lungo periodo.

La grande richiesta di corsi conseguente all’emanazione della legge 195/03 ha determinato la proliferazione di innumerevoli “scuole”, “enti”, “accademie” che si sono avventurate nel campo  della formazione in tema di salute e sicurezza dei lavoratori risultando “ope legis” legittimate ad erogare i corsi con “verifica finale dell’apprendimento”.

Ritengo che proprio su questo passaggio si inceppi il meccanismo. Come e da chi vengono definite le modalità di verifica dei corsi della legge 195/03 e, ancora, chi accerta le professionalità e l’accuratezza di coloro che effettuano le verifiche? Inoltre, al di là dei contenuti dei corsi, chi accerta la qualità delle metodologie didattiche e dei docenti che operano nelle strutture didattiche che erogano i corsi previsti dalla 195/03?

Sono queste le domande che analogamente ci poniamo quando affrontiamo i dibattiti sulla qualità ed efficacia della formazione scolastica e universitaria in Italia sulla cui validità da tempo abbiamo seri dubbi. Penso che sia altrettanto legittimo interrogarsi sulla qualità ed efficacia di corsi che hanno l’obiettivo di formare gli operatori che sui posti di lavoro hanno il compito di contribuire alla salvaguardia della salute e sicurezza dei lavoratori.

Sarà quindi necessario, se si condividono queste perplessità, avviare una riflessione che porti alla introduzione di meccanismi di controllo sull’erogazione della formazione ex legge 195/03 proprio in considerazione della necessità di garantire che le strutture e i docenti adottino un codice etico e vantino adeguate professionalità sulle metodologie didattiche, oltre che sulla materia.

Altro aspetto che ritengo degno di attenzione è quello che riguarda i destinatari della formazione che, oltre agli RSPP e RLS, sono i lavoratori stessi impegnati nei vari processi produttivi. Per questa categoria di destinatari l’approccio formativo e le metodologie didattiche acquistano una valenza di estrema importanza essendo il punto critico della prevenzione e della salute e sicurezza sul lavoro.

Nella progettazione e gestione della formazione per tale popolazione di destinatari si dovrà porre una particolare attenzione finalizzata a garantire che i corsi in tema di salute e sicurezza dei lavoratori si svolgano, al di là degli aspetti meramente nozionistici, secondo un approccio sistemico, culturale e didattico che sottolinei, oltre ai fattori organizzativi e legislativi, anche gli aspetti e i risvolti psicologici che sottendono alle problematiche della salute e sicurezza dei lavoratori ponendo in forte risalto le connessioni esistenti e spesso sottovalutate tra l’attività lavorativa e il benessere e l’integrità del proprio corpo.

Fondamentale in questa fase della formazione è agevolare, secondo un approccio andragogico, la instaurazione di  un clima d’aula che favorisca l’apprendimento, che sia emotivamente sicuro, in cui i partecipanti si sentano certi di non essere giudicati ma aiutati a orientarsi verso un cambiamento “evolutivo” in un clima in cui i partecipanti possano concedersi la possibilità di “sbagliare”.

In tale ottica la formazione deve far prevalere la visione di una sicurezza che, travalicando il semplice istinto di autoconservazione e di affrancamento dal dolore, garantisca oltre all’integrità individuale e collettiva lo sviluppo di una responsabilità sociale dell’impresa e dei lavoratori che vi operano. Ciò anche in coerenza con quanto previsto dal Decreto Legislativo 81 del 2008, denominato “Testo Unico della Sicurezza”.

Non ritengo che un percorso formativo sulla salute e sicurezza sul lavoro possa tradursi esclusivamente in strumenti e “pacchetti”. Ritengo che debba essere sempre più fondato su una diagnosi e analisi progettuale che impegni la responsabilità del formatore ed utilizzi saperi, competenze, sentimenti ed esperienze fatte da altri e socializzate.

Secondo tale impostazione sarà necessario che il formatore sostituisca ad una didattica meccanicistica, vista come semplice adempimento professionale imperniato sul trasferimento di conoscenze secondo modalità passive, una metodologia formativa che si ponga l’obiettivo di coinvolgere il lavoratore trasferendogli “sensazioni” che aiutino a far percepire la sicurezza sul lavoro anche come un fatto etico e sociale.

Deve far divenire il bisogno di sicurezza una esigenza del lavoratore, per se e per il gruppo all’interno del quale opera, una esigenza professionale al pari di qualsiasi altra competenza lavorativa da poter vantare e accrescere.

Deve utilizzare metodiche di formazione esperenziale per far toccare con mano e vivere il collegamento tra i modi di agire connessi alla questione sicurezza, le dimensioni psicologiche che sottendono e gli effetti devastanti per l’integrità fisica che possono assumere alcuni comportamenti e/o atteggiamenti.

Deve porre al centro dell’azione formativa la dimensione “gruppale” della sicurezza del lavoro proprio in quanto il lavoro è un processo di gruppo che presuppone legami reciproci tra i membri da cui dipende la esistenza ed integrità fisica dei singoli.

E’ proprio questa condizione di reciprocità tra il singolo ed il gruppo che deve essere sottolineata nei processi formativi attinenti la sicurezza sul lavoro, in modo che ciascuno si senta responsabile, oltre che della propria, anche della sicurezza del gruppo e della collettività.

Naturalmente la riflessione sull’ottimizzazione dei processi formativi nel campo della salute e sicurezza dei lavoratori non potrà che partire da una valutazione della dimensione individuale dei destinatari.

Infatti la formazione orientata a dotare il singolo lavoratore di strumenti idonei a scandagliare il proprio livello psicologico di valutazione del rischio secondo parametri accettabili di salvaguardia dell’integrità fisica ed autostima, dovrà contemporaneamente stimolare nel destinatario la percezione di se, in relazione al livello di pericolo (modalità di avvertire il pericolo, avere percezione delle soglie di pericolo e del limite delle abilità personali, avere chiaro la mappa dei rischi,…), e di attenzione ai segnali del proprio corpo.

Da quanto detto sin qui discende che l’azione formativa degli operatori della sicurezza sul lavoro, sotto il profilo estetico ma anche etico,  ha l’onere di produrre tra i partecipanti  il “piacere” dell’apprendimento visto come strumento del miglioramento del proprio status psicofisico. Se l’azione formativa non riuscirà a produrre piacere tra i partecipanti distrarrà le loro energie psichiche dall’apprendimento.

Se inoltre l’azione formativa dovesse essere percepita come una minaccia, i partecipanti faranno di tutto per difendersi e non apprendere. Una azione formativa che non partisse dall’individuo e dalle sue esigenze sarebbe destinata a fallire senza apportare alcun valore aggiunto alla comunità e alla lotta contro gli infortuni sul lavoro.

Da tale considerazione scaturisce la necessità di recuperare la relazione formatore/allievo un tempo predominante nell’azione formativa ma oggi soffocata dalla pianificazione, dall’orientamento alla prestazione e dall’ossessione dei costi.

In una visione etica della formazione, che prediliga il bene del partecipante, la figura del formatore è di colui che guida e orienta il discente oltre l’apprendimento tecnico verso la scoperta di sé, all’identificazione in ciò che si fa, alla valorizzazione del proprio potenziale.

Nessuno può essere costretto ad apprendere, quindi secondo tale visione il formatore diviene uno che facilità le cose al partecipante e che, come sostiene Carl Rogers, “…imbandisce la mensa e mostra agli altri che è eccitante e meravigliosa e li invita a mangiare.”  Il formatore che abbia una corretta visione della qualità ed eticità del proprio mestiere sente la responsabilità di guidare l’apprendimento mostrando il proprio entusiasmo e la propria convinzione nel cercare e allestire la mensa e quindi di assaporarla con i propri “allievi”.

Ciò comporta che il formatore dimostri un pieno rispetto del partecipante che presupponga una piena conoscenza del suo “IO”, delle sue aspettative e delle sue paure.

Tale consapevolezza si manifesterà nelle “Forme” che assumerà l’intervento formativo nella scelta e l’utilizzo degli strumenti e delle tecniche che si useranno per suscitare nel partecipante quel senso di benessere conoscitivo che favorirà il processo di apprendimento consapevole.

Parlando di “Forma” dell’intervento formativo inerente la salute e sicurezza dei lavoratori non si può non parlare di una sua estetica quale frutto del rapporto tra “formazione” e “emozioni” che se ben progettato influenzerà l’efficacia e persistenza dell’apprendimento.

Allorché la formazione, mediante una forma estetica adeguata, che punti ad attivare e stimolare emozioni e sensi, riuscirà a coinvolgere i partecipanti il messaggio etico sarà più forte e saldo nell’apprendimento degli stessi. Naturalmente ciò avrà una profonda ripercussione sugli atteggiamenti dei lavoratori allorchè torneranno alla loro attività.

L’apprendimento è un processo globale: il partecipante memorizza, consciamente e inconsciamente, ogni suo aspetto razionale o emozionale con cui viene in contatto. Quindi quando la formazione dichiara di prendersi cura della persona lo deve fare nella sua totalità.

“Utilizzare situazioni emotivamente coinvolgenti risulta non solo un metodo utile per rendere più piacevole e gradito l’apprendere, ma soprattutto un processo fisico indispensabile da dover attivare per realizzare apprendimenti efficaci” (Marco Rotondi . FOR 2002)

Nel nostro campo ci chiediamo spesso cosa ostacola ancora una adeguata prevenzione degli infortuni sul lavoro nonostante l’impegno che tutti stanno profondendo nell’informazione e formazione dei lavoratori.

Forse la risposta consiste nella scarsa attenzione che si dedica all’attivazione di stimoli ed esperienze sensoriali nell’ambito dei corsi specialistici: ciò determina nei lavoratori un insufficiente apprendimento e una loro scarsa attenzione ai temi profondi della salute e sicurezza sul lavoro.

Dunque un nuovo approccio formativo che, oltre a trasferire nozioni e norme, lavori sui vissuti delle persone agendo ed inter-agendo con le esperienze personali dei lavoratori.

L’obiettivo, come detto in premessa, è di andare oltre la mera formazione culturale e nozionistica ma agire sulla formazione personale del singolo lavoratore sia a livello esperienziale che psicologico. La meta deve essere la creazione di un sistema di prevenzione responsabile e consapevole ove l’attore primario sia il lavoratore.